C’è un Carlo che è veramente magno per i toscani in generale e per i fiorentini in particolare.
E’ un omone grosso, con una pancia tonda e dura che gli fa vertiginosamente calare i pantaloni stoppandoglieli appena sopra il pube. Ai piedi porta i sandali anche quando non è più estate, addosso maglioni e giacchettacce, sulla testa capelli sterpacchiati, un po’ bianchi, un po’ biondicci stinti, spettinati, disordinati, a volte un cappello, più spesso niente. La barba non è quasi mai fatta, gli occhi sono pesti e appesantiti, le rughe profonde come di chi ha preteso una vita esagerata.
Lo trovi a giro per Firenze in piena notte, mentre cammina curvo e aggobbito nella postura primitiva che ha contribuito a fare di lui quello che è: il grande attore che in Berlinguer ti voglio bene ruba la scena a Benigni.
Un giorno gli telefonai, a Carlo Monni. E qui ci vuole una parentesi.
In quel periodo facevo parte delle “Ciane”, un quartetto di amiche inseparabili che poi si separarono. La Ciana Bea era fissata con quel film, esattamente come me, ma più di me ne faceva mnemoniche citazioni perché in tempi non sospetti ne possedeva la sceneggiatura originale. E siccome uno dei collanti che più fortemente legavano le Ciane era l’ars culinaria, mensilmente aveva luogo la Cena Ciana, raffinatissimo appuntamento fisso in cui, con le vivande, si cucinavano parole. Tante parole. Serate intere di parole, come quando Samantha, Miranda e Charlotte si ritrovano a casa di Carrie e tirano mattina a scolare calici di Clicquot Ponsardin. Una volta, in vena di osare, pianificammo di sfociare in un dopocena che, al ricreativo, unisse il “curturale”. La Ciana Bea, chiaro, propose la visione (con gara di citazioni annessa) del film più cult della storia cinematografica italiana. E sicomme, seppur per gioco, esclamò “Ragazze, ci pensate come sarebbe bello invitare Carlo Monni a cena e guardare il film insieme a lui?”, io scorsi l’elenco telefonico, trovai il suo nome e lo chiamai per invitarlo. Con la trascrizione fedele della conversazione intercorsa tra me e quell’uomo potrei scrivere un libro. Alla fine il magno Carlo, già impegnato in teatro, non poté venire, ma noi Ciane fummo contente lo stesso. Ora torniamo a lui.
Al magno Carlo di Firenze, che si dichiara nato a Champs sur le Bisens, forse manca la consapevolezza di essere magno davvero. Non si spiega, altrimenti, quell’aria malinconica, quello sguardo dolcissimo e un po’ triste che lo accompagnano ovunque, e quella tentazione irresistibile che egli avverte quando si trova al cospetto di una bottiglia alcolica.
Lo incroci rincasare e ti chiedi chissà che cosa pensa mentre barolla e uno dopo l’altro mette avanti lunghi passi incerti e non è sicuro se guardarti o no, forse timido, impacciato forse, delicato che non ci crederesti, ora che conosci le citazioni più celebri del film e gli hai sentito dire “noi semo quella razza/ che al cinema s’intasa/ pe’ vede’ donne gnude/ e farsi seghe a casa”.
Eppure Carlo è tutto questo.
E quando l’altra sera si è spalancato il tendone rosso di velluto e lui è apparso sulla scena del teatro di Rifredi -gli stessi occhi bassi, le stesse spalle curve, la medesima postura di chi ha paura di disturbare stando al mondo- sono rimasta sospesa per sentire cosa gli sarebbe riuscito tirare fuori da una testa che immaginavo confusa e da una bocca che temevo impastata.
Invece ho ascoltato il più godibile, linguacciuto, romantico Falstaff e ho riso, pianto e riflettuto sulla vita, sulla morte e sui rapporti umani, insieme a lui.