In viaggio. In viaggio ascolto In viaggio dei CSI. Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti / Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti, viaggia Sua Santità/ Consumano la terra in percorsi obbligati i cani alla catena / Disposti a decollarsi per un passo inerte più in là/ Coprono spazi ottusi gli idoli/ Clonano miliziani dai ritmi cadenzati/ In sincrono. Non si capisce dove vadano a parare? Be’, chi se ne frega. La musica, come la poesia, non deve mica raccontare e farsi capire nell’immediato. Quando ha evocato, ha bell’e fatto il suo. In viaggio fotografo quello che vedo dal finestrino del treno che, freccia rossa e velocissima, mi trascina a nord. Dal finestrino, non vedo altro che neve. La foto è tutta bianca. Bianca come Bianca, la mia compagna di banco del liceo Bianca di Savoia Aosta. Bianca come Bianca, la bambina bionda e bella della mia amica bionda e bella. Bianca come l’epidermide del personaggio femminile di quel libro che mi sono portata dietro nel viaggio. Bianca come la pagina su cui scrivo. Bianca come certe terribili notizie che ti lasciano bianca di paura. Bianca come Milano ieri.
Milano. Milano ieri era un lenzuolo bianco, un lampada bianca, un gelato tutta panna, il mio Mac, una parete in orizzontale, un orizzonte senza fine, un impasto denso di nebbia, foschia, fumo e neve. A Milano il sole è un cerchietto nel cielo, un anello lanciato in alto che non è più sceso, un bersaglio piccolo, una meta che non si lascia conquistare. A Milano mi devo incontrare con il Gavi. Il Gavi è un amico più che caro. Col Gavi facemmo un pezzo di strada insieme e vidi dove viveva e come, dormii dentro il suo letto, mangiai il suo stesso cibo e parlai la sua lingua per una porzione di anno, tanti anni fa. Ora il Gavi vive lontano, occhi a mandorla e anelito d’Occidente, e un po’ è felice e un poco no, non ci vediamo più ma ci scriviamo sempre, la scrittura ci fece avvicinare, con la scrittura rimaniamo vicini. A Milano il treno si ferma, io scendo e coi miei capelli rossi sporco il bianco del contorno per andare incontro a lui che mi aspetta in fondo al binario.
Dove sei? “Dove sei?”. “Sono a casa, davanti al computer”. Il Gavi non aveva capito che l’appuntamento al binario era per oggi, non per domani. Per farsi perdonare, resta al telefono con me per tutto il tempo che avremmo dovuto spendere insieme davanti a una tazza di caffè a spalancare una valigia di parole. Un’ora e mezzo, e mi si scarica la batteria del cellulare.
Per Brescia. Sopra il treno per Brescia incontro una signora. Mi siede vicina e mi guarda come si guarda una figlia. Approfitto dei momenti in cui non mi guarda lei, per guardarla io. I guanti di pelle alle mani, il giaccone imbottito con la pelliccia al collo, il cappello caldo in testa, i capelli fatti di fresco per un’occasione. L’occasione è andare a far visita a sua figlia, che viene dal sud profondo ma vive a Brescia. E mi ricorda la mia mamma, questa signora, quando prese il treno e venne a trovarmi a Bergamo insieme al cane Nello. Viaggiarono vicini, un sedile lei e uno lui, e alla stazione c’ero io ad aspettarli per portarli nella mia casa da emigrante arredata però come una che ha messo radici. Mi faccio trentacinque minuti di viaggio sprofondata nella memoria di dieci anni fa, il treno taglia in due la bergamasca, una lunga analessi la mia mente. Com’ero giovane, com’ero fragile, e come sono stata forte, come ho fatto tesoro di tutto quello che ho vissuto in quegli anni. Ho immagazzinato tutto e mi porto sempre tutto dietro come una lumaca la sua casa.
Bergamo in corsa. Mi accorgo che attraversiamo Bergamo dalle cascine che vedo e mi ricordo di quella vicina a Bagnatica dove mi portavano spesso a cenare tra tavoloni e panche tutti insieme tra polenta e casoncelli. Mi torna in mente il portinaio argentino Daniel, la vecchia che mi affittò il bilocale in via Baracca, la sua badante spagnola che credeva nella reincarnazione, lo stadio da cui sentivo i gol, la strada che spaccava le montagne, gli uomini di cui non volli innamorarmi, le amiche che diventarono sorelle. Mi cascano lacrime lungo le guance ma do la colpa alla velocità del treno anche se i finestrini sono tutti chiusi e l’aria è immobile e calda.
Brescia e non me n’ero accorta. Stazioncina minimale, alberi a chioma quadrata, massaggi orientali, macellerie arabe, Brescia nebbiosa, Brescia multietnica, coppie miste che camminano abbracciate, giovani deportati nei centri commerciali, e una manifestazione contro il razzismo. Costeggio i binari dall’esterno, in tutto quel grigio sono grigia anch’io ma ho capelli rossi a fare da faro, tacchi larghi per rumoreggiare e farmi sentire che arrivo, taglio il centro in mezzo con un cappello in testa, sogno di sfilarmi gli stivali, fare la pipì, gettarmi acqua sopra il volto, telefonare a mio fratello, cambiarmi d’abito e andare a vedere cosa sta per accadere.
A pranzo col collare. Intanto accade che un prete mi viene a prelevare dall’hotel di lusso in cui risiedo e mi porta a pranzo fuori. Lo guardo e mi fa tenerezza. E’ giovane e voglio sapere la sua storia. Mi dice che l’amore per l’umanità è arrivato ancora prima di quello per Dio. Mi sta simpatico questo prete, ha gli occhi chiari pieni di speranza, ha tutta la fiducia che io ho smarrito in parte e decido che posso raccontargli il mio passato. Il mio passato è un gruppo di amici in salvo dentro le mura di uno spazio incantato lungo una strada abbastanza trafficata, un’oasi senza disturbo, un campo da calcio, due campi da basket, una sala per le riunioni, una cappella fatta in casa, una piccionaia per le prove del gruppo musicale. Il mio passato sono baci con la lingua sotto il melagrano e preghiere in cui credevo, Guccini e De Gregori, Finardi e De André, l’amicizia e l’impegno, la ribellione e la rabbia. Il mio passato è stato tanto bello ed è tornato a galla in ogni presente. E’ grazie al mio passato se tento di essere la professoressa che vorrei essere, se sono la persona che spero di non deludere, se ho la vita che mi sono costruita. Mescolo il racconto ai bocconi di tagliata che mangio per fare incetta di energia e reggere la conferenza che devo tenere di lì a poco.
Di lì a poco. Siedo al tavolone della Biblioteca dell’Università, parlo con un microfono davanti alla bocca, cerco gli occhi di chi mi presta orecchio, mi guardo intorno, leggo dal mio primo libro, leggo dal mio secondo libro, parlo del libro che sto per finire. Mi siede accanto una ragazza con la frangia corta e il viso dispettoso, la lingua lunga e l’animo gentile, la camicia come David Bowie e il borsone per il corso di taglio e cucito. Beve the allo zenzero e prepara da sola omogeneizzati per una bambina che sorride ininterrottamente da cinque mesi a questa parte. Scrive su BresciaOggi, scrive su Grazia, scrive sul blog, scrive sui libri. E quando l’incontro finisce, mi porta a camminare sull’acciottolato di quella città nera di neri e buia di buio, dove Desiderio lasciò la sua corona ed Ermengarda si lasciò morire per amore.
La delegazione bergamasca. Sono stanca, sono distrutta, sono affamata e sono morta. Ma la delegazione bergamasca non sente storie: salta in macchina e si fa un’ora di strada. Sono sei anni che non ci vediamo. L’ultima volta fu una Pasqua che io decisi di passare non con lui, bensì con lei: la delegazione bergamasca. M’inabisso a pianterreno dal mio settimo piano e la intravedo nella hall dell’hotel. E’ una foto sbiadita, uno tsunami di sensazioni rimosse, sono pizze fatte in casa e cene condivise, nottate a ridere e pomeriggi a sorseggiare caffè caldo, generosità senza misure e amore gratis. Tutto il passato me lo sento addosso in una volta e non so se ridere come a quei tempi o mettermi a piangere. Piango. Mi libero dalle tossine dell’emozione, piango e stringo corpi cambiati, piango e mentre mi sento stringere m’accorgo di non essere più quella. Ma poi mi dico che è meglio se ci rido su e così la delegazione bergamasca me la porto nella camera al settimo piano. Ci leviamo le scarpe e incrociamo le gambe sopra a un letto che sembra a quattro piazze, accostiamo il tavolino, svuotiamo il frigo bar, ci raccontiamo tutti i segreti e ci diciamo ti voglio bene, che fa tanto bene. E’ notte quando la nostra notte finisce e la delegazione bergamasca riparte per tornare in quella città a due piani, che per cinque anni fu anche mia.
Commiato. Resterebbe da scrivere di cosa si prova a svegliarsi la domenica mattina a Brescia senza nessuno che ci dorme accanto e c’imprigiona i piedi con i piedi, di com’è facile ascoltare il proprio cuore quando si sta due giorni da soli con se stessi, di come ci vogliono ogni tanto queste trasferte e queste immersioni nel pensiero, di quante pagine si possono scrivere anche a mano, di come nulla sia più importante del sentirsi al mondo e guardare il mondo in prospettiva. Di come sia inospitale la stazione di Milano coi lavori in corso, di come sia misteriosa la mescolanza obbligatoria a cui ci costringe il treno, di come sia difficile pisciare in equilibrio a cavallo di una Freccia Rossa.
Magari un’altra volta.