Lo so.
Ci sarebbero argomenti più sostanziosi da trattare. Le vacanze finite, il lavoro ripreso, il primo Collegio dei Docenti avvenuto (garanzia di materiale letterario bastevole da qui a Natale), le riunioni avviate, gli esami di riparazione completati. Insieme a tutto questo, quel “patto” con la scuola sceso dall’alto e motivo di un certo trasalimento, valutazione del merito, scatti d’anzianità, revisione dei programmi, maturità.
E lo so.
Ci ho già scritto su due post, e poi chi se ne frega di quella cosa lì, non è perché ora ti sei iscritta e ci vai te che bisogna ragionarne tutti i giorni.
Sì, lo so.
Ma fatemi (vi prego) tornare una volta ancora sul tema palestra. E non per discorrere di allenatori, macchine, corsi di yoga e di pilates. Della palestra, vorrei portarvi virtualmente negli spogliatoi e farvi vedere quello che vedo io.
Passere.
Passere ovunque.
Passere a non finire.
Passere a piovere, a grandinare.
E uno dice be’, ci porti negli spogliatoi, cosa vuoi ci sia, ci sarà gente che si spoglia.
Certo, ovvio, naturale.
Ma quanto ci vuole per spogliarsi? Voglio dire, non in compagnia di un uomo (occasione in cui, al fine di infuocare l’attimo, non solo è lecito ma è -direi- addirittura consigliabile protrarla per le lunghe), dico spogliarsi a fini pratici, tipo la sera prima di andare a dormire o in bagno prima d’infilare in doccia. Un minuto? Due? Tre? Siete particolarmente riflessive, ok, facciamo cinque? E per vestirsi quanto tempo ci vuole? D’accordo, un po’ di più, l’abito da scegliere, la combinazione giusta dei colori, la prospettiva delle scarpe da abbinarci. Ma poniamo che quello che ci dobbiamo mettere sia già tutto lì, davanti a noi, chiuso in un armadietto ad attenderci perché è esattamente ciò che indossavamo quando siamo uscite per venire in palestra ed è esattamente ciò che ci rinfileremo per tornare a casa. Allora, quanto ci potrà volere? Cinque minuti? Sei? Sette? Siete particolarmente cogitabonde, ok, facciamo dieci.
In palestra no.
In palestra per spogliarsi e rivestirsi ci possono volere quindici, venti, venticinque minuti. Ci può volere anche mezz’ora. Non si sa perché però è così.
In quella mezz’ora, la passera viene lasciata bellamente all’aria. Via, libera di svolazzare ovunque, davanti ai megaspecchi coi lampadoni da trucco, davanti ai phon, nell’area della pesa, vicino alle bilance, sui quadratoni imbottiti e rivestiti in pelle rossa, lungo i corridoi, nella zona docce, nella zona cessi. Ovunque ti volti c’è una passera, ce ne sono due, cinque, dieci passere pronte a librarsi sopra i tuoi occhi. Ovunque tu passi, ci sono passere che passano laddove passi tu.
A passera gnuda, le frequentatrici di palestra sono capacissime di fare tutto, bere, alimentarsi, controllare la posta elettronica sull’iphone, andare su whatsapp, rispondere ai messaggini, chiamare a casa. Tuttavia l’attività a cui si appassionano di più è la conversazione faccia a faccia. Discorrere vicendevolmente a passera gnuda deve appartenere a quella categoria di piaceri in genere nomati ineguagliabili. Non se ne spiegherebbero altrimenti le innumerevoli adepte.
(Tipa a passera all’aria) “Insomma, ieri sera?”
(Amica della tipa a passera all’aria, anch’ella smutandata come la sua amica) “Niente, in Santa Croce.”
(Tipa a passera all’aria) “Ma chi c’era?”
(Amica della tipa, sempre smutandata come l’altra) “La Dile, la Bea, l’Ele, l’Ari e l’Ila. Oh, ma lo sai cosa ci ha detto l’Ila?”
E mentre quella narra all’altra cosa ha detto la sera prima l’Ila in Santa Croce, la passera di entrambe svolazza gaiamente al vento, così, prende aria, respira. Le due possono essere sedute, ma preferibilmente sono in piedi, le passere così sono esposte meglio e risaltano di più. Loro parlano e quelle sotto lì beate a rilassarsi, l’una di fronte all’altra, libere da prigioni di pizzo e di cotone.
Va considerato che nel frattempo ne passano e se ne accavallano altre quindici o venti che transitano lì per caso, per bisogno, per curiosità.
Ora.
Se le passere non fossero così tante e così entranti, io non ci avrei fatto neanche caso, perché di passere tendenzialmente mi attrae solo la mia, quantomeno per vedere come sta.
Ma visto il viavai congestionato a cui è impossibile sottrarsi in uno spogliatoio di palestra, ammetto che mi capita di notare fogge e stili delle passere moderne.
La passera, per dire, c’è chi se la sfoltisce riducendo di molto l’area del naturale triangolino capovolto: la base si accorcia, l’altezza le si adegua. Base per altezza fratto due, risultato: una passerina.
Ma c’è anche chi la porta alla mohicana: rasata ai lati, con una striscia verticale che l’attraversa per intero seguendo fedele la linea delle grandi labbra.
Ma quella che imperversa più di tutte è la passera glabra. Quella va proprio di moda. Come quando s’era bimbe ancora da sviluppare. Lustra, liscia come un boccino da biliardo, tipo cipolla di Tropea sbucciata. E mi potrebbe anche andare bene, se le passere fossero tutte belline, raccolte e armoniose come ce l’hanno -appunto- le bambine.
Ma io (involontariamente, ribadisco) vedo certe passeracce sghembe che (non nego) mi fanno un poco senso: passere cenciose, allentate, avvizzite, passere secche, risucciate, passere piatte, schiacciate come i quadri prima che scoprissero la prospettiva, come i cartoni prima che introducessero il 3D.
“Ma perché, quelle che ce l’hanno slabbrata e gli si vede penzolare quel coso ciondoloni non l’hai viste?” esclama l’amica con cui mi sono confidata.
No, non le ho (ancora) viste.
Appena ne vedo una mi cancello.