Tutte le parole etimologicamente riconducibili al verbo greco didàsko mi attirano. Vado quindi alla Fortezza da Basso per visitare Didacta, sottotitolo: la più grande fiera scolastica. Ho letto che sarà presente il meglio delle aziende della lunga filiera della scuola: dall’editoria all’edilizia, dalle tecnologie agli arredi, fino ai prodotti di consumo e ai servizi pensati per la scuola. E ho letto che tutte le categorie di operatori del mondo della scuola sono interessate: dirigenti scolastici, insegnanti, docenti universitari, formatori, giornalisti specializzati e i principali ordini di professionisti, oltre a tutti i livelli di istruzione e formazione (scuola primaria, secondaria e superiore, istituti professionali, università, istituti di ricerca scientifica e di formazione professionale). Insomma, entro.
A me le fiere ubicate alla Fortezza non piacciono quasi mai: i locali sono così grandi, che tutto sembra sempre spoglio e vagamente deprimente. Anche stavolta è così. Ma ecco, subito dopo la biglietteria, lo stand della Fondazione Don Lorenzo Milani ad accogliermi. Ampi pannelli rettangolari ritraggono il prete ribelle e i suoi alunni di Barbiana, la scuola dove non c’era niente eppure c’era tutto: un tavolo di legno, sedie e panche intorno, libri e quaderni. Accanto alle gigantografie che ritraggono persone e ambienti, le frasi scritte all’epoca dai ragazzi stessi: “La nostra scuola è in due stanze della canonica, più due che ci servono da officina. D’inverno ci stiamo un po’ stretti. Ma da aprile a ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca! L’orario è dalle otto di mattina alle sette e mezzo di sera. A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare. Questa scuola, dunque, senza pause, più profonda, più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi a venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé”. Mi commuovo sempre, quando rileggo passi della Lettera a una professoressa. Perlustro la fiera.
Tra pennarelli Carioca e matite Fila di gusto vintage, spiccano i prodotti tecnologici all’ultimo grido, dai display interattivi ai tavoli modulari, dalle stampanti 3D ai proiettori Lampfree. Su un pannello luminoso scorre la scritta: problemi col registro elettronico? Affidati a Regel: segreteria digitale, modulistica, rilevazione presenze, personale, sito web. Penso immediatamente al registro cartaceo che quest’anno mi sono comprata da Buffetti: lo svendevano a 5 euro e 60, contro i 18 di un tempo, perché non va più, è caduto in disgrazia dopo l’introduzione di quello elettronico a cui ogni scuola si è dovuta adeguare. E anch’io l’ho fatto, per forza. Ma quando i miei colleghi di liceo me l’hanno visto spuntare tra i libri, hanno preteso di sapere dove l’avessi trovato al grido di: lo vogliamo anche noi. E così, mentre cammino tra gli stand e i miei occhi sono attratti da quel tripudio di luci, cursori, link e cartelle digitali, mi chiedo se tutta questa tecnologia può non dico salvare, ma aiutare la scuola. E mi rispondo che sì, forse la aiuta. Però prima di tutto bisognerebbe disporne. Nella scuola dove insegno (1300 alunni e 150 docenti) le aule con la Lim non arrivano a dieci. Forse nemmeno a cinque. Non lo so con precisione, perché a me non toccano mai. Il corso per imparare ad usare la lavagna elettronica lo frequentai sette anni fa. Da allora, mai una lezione ho potuto proporre con il suo ausilio, perché di fatto non ho mai avuto la buona ventura di trovarmela in aula. Da allora, procedo come avevo sempre proceduto nell’era ante-digitale, cioè col gesso che m’impolvera le mani, con gli schemi sempre ripetuti (ma mai sempre uguali) di anno in anno. Io nella scuola digitale non ci credo. Non credo che il registro elettronico aiuti i docenti e le famiglie a stare più vicini (anzi, li allontana tristemente), né che l’uso dei tablet (o degli smartphone, come vorrebbe la nostra ministra) solletichi la curiosità dei nostri alunni. Anzi, proprio perché i ragazzi vivono con quegli oggetti perennemente tra le mani, penso che gli oggetti alternativi che trovano a scuola (il vecchio libro di carta, il gesso polveroso) possano in qualche modo aiutarli di più. Per esempio a frenare, a concentrarsi, a capire il senso della lentezza, il valore della fatica mentale, la bellezza dello sforzo che nasce dalla stesura di una frase dotata di senso compiuto, in mezzo a tanti strafalcioni e anacoluti che popolano le loro scorribande online. Sono vecchia? Sono antica, superata, vetusta? Ci sta: del resto sono nata proprio quando don Lorenzo apriva Barbiana, i miei anni ce li ho. E in tutti questi anni dietro la cattedra (dove in realtà non siedo mai) penso di aver capito cosa acchiappa davvero i ragazzi (la passione e il coinvolgimento di chi hanno davanti) e cosa vince nel rapporto con i loro genitori (la voglia di incontrarsi e parlare a quattr’occhi).
(Oggi sulle pagine fiorentine del Corriere della Sera)