Lei credeva di avere un amico. Lui la prendeva con sé di tanto in tanto e la portava dentro i boschi, per le radure, negli anfratti, tra i cespugli. Poi tirava fuori un fucile lucido e freddo, lo puntava verso un animale in movimento, e gli sparava.
Ma lei, che aveva il terrore di quegli spari, fuggiva via senza di lui e tornava a casa tutta sola.
Un giorno lui l’ha presa con sé, l’ha portata dentro un bosco, e ce l’ha lasciata.
Lei ha passato diversi giorni a chiedersi il perché di un gesto tanto ingrato e ignobile. Dava la colpa a se stessa. Dev’essere perché non so cacciare -si diceva- perché non servo a nulla.
Esattamente questo lui pensava: che lei non servisse a nulla.
Macinati chilometri e chilometri nei boschi di Maremma, un giorno è approdata ad una casa strana dove ha trovato profumo di mangiare forte come calamita, un uomo duro come il monte Amiata, una donna tonda come una ciambella, qualche cane magro e sciancato, alcuni gatti uggiosi e spelacchiati, un cavallo solitario, due vitelli musoni, mille pecore piagnone, cento maiali sudici e puzzoni e innumerevoli cinghiali in apparente libertà.
Le è stato dato da mangiare, le sono state fatte carezze sulla testa, le è stato detto puoi dormire qui finché ti va.
Lei però ha sempre fame, ha sempre sonno, ha sempre paura e ora ha anche due piccoli da attaccare a mammelle cadenti.
Non ha un nome, perché nessuno pensa che ne abbia bisogno.
Quando l’ho conosciuta e le ho visto addosso due occhi liquidi e strazianti capaci di levare il sonno a chi li guarda, ho pensato che Emily Bronte sarà perfetto per lei che dovrà voltarsi e per me che la dovrò chiamare.